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autostima e storia della nostra vita

Nella mia pratica di psicoterapia, nell’aiutare le persone seguo diverse linee di condotta che in genere sono fondate sul  rinforzare le capacità dell’altro di conoscersi in profondità, esser  nel momento presente, non essere consumati da rimuginio  e migliorare la capacità di  auto-monitorarsi. Molte volte le persone che mi chiedono aiuto hanno una bassa autostima di sè e si portano dietro una infanzia fatta di trascuratezze genitoriali e sensazioni di non valere. La vita di adulti diventa una difficile storia di dissimulazione delle proprie fragilità per timore di essere abbandonati dal partner o di non trovarne mai uno. Spesso contemporaneamente si teme di perdere il proprio lavoro nel caso che le fragilità vengano a galla. Cosa fare se si ha una bassissima autostima? Una delle modalità è di costruire una diversa storia di se stessi che ci permetta di essere intimamente più fieri.  Riportiamo una libera traduzione di un articolo in Inglese su Psyche, articolo di Patricia Olsen   (nella foto, sotto) “Ho ricostruito la mia autostima cambiando la storia di ciò che sono”. Leggiamo cosa dice la scrittrice che durante una infanzia difficilissima  (entrambi i genitori erano alcolisti) si era aggrappata ad un mito familiare (essere discendente di un grande esploratore) per garantirsi un minimo di valore. Vedremo poi come questo mito fosse assai fragile e caduco.

Jonathan Adler, psicologo dell’Olin College of Engineering di Needham, Massachusetts racconta “una volta mi sono aggrappato a una dubbia storia, una leggenda di famiglia per aiutarmi a superare un’infanzia difficile. Da allora ho trovato una storia migliore da raccontare. Il senso di chi siamo è profondamente legato alle storie che raccontiamo su di noi e sulle nostre esperienze. La narrazione è una parte importante del modo in cui sviluppiamo una visione della nostra vita.  Se avete mai vissuto con difficoltà a causa di una bassa autostima, saprete quanto può essere importante cercare di trovare una storia positiva da raccontare su di voi.

“Questo è stato certamente vero per me da giovane” –  scrive Patricia – “quando ero abbastanza grande da capire, mia madre di tanto in tanto parlava di come, da parte sua, discendessimo da un famoso esploratore  Meriwether Lewis, della spedizione Lewis e Clark del 1804 per mappare i territori occidentali degli Stati Uniti. Ricordo che fornì un’unica prova: sua madre aveva chiamato uno dei suoi figli Lewis in onore dell’esploratore e lo aveva scritto come si scriveva il suo nome, invece dell’alternativa (Louis). Questo bastò a convincermi e mi aggrappai a questa storia per aiutarmi ad affrontare una vita familiare altrimenti squallida.  I miei genitori soffrivano di alcolismo, con tutte le turbolenze che questo può comportare. La maggior parte delle sere iniziavano a bere prima di cena e quando li pregavo di non farlo, mi rimproveravano. Se speravo che io e i miei due fratelli diventassimo amici per compensare il caos di casa, non ero fortunato. Entrambi sono stati piuttosto selvaggi durante la crescita. Mio fratello maggiore si unì a un gruppo di motociclisti da adolescente e poi si arruolò nei Marines. La sua carriera militare, tuttavia, non durò a lungo e la sua vita non fu molto migliore in seguito. Mio fratello minore era uno che rischiava e si metteva sempre nei guai. All’epoca non avevo alcuna autostima. Ma credere a questa storia – che ero imparentato con un famoso esploratore – mi risollevava. C’era una persona con cui ero imparentato e di cui potevo essere orgoglioso (e per associazione sentivo di poter essere orgoglioso di me stesso).

Con una piccola ricerca, ho scoperto di non essere l’unica a trovare conforto in questo tipo di storie familiari. Prendiamo Michael Harper, direttore esecutivo dell’Esercito della Salvezza di Portland, nel Maine, e pastore dell’organizzazione. Da bambino Harper ha saputo di discendere da John Winthrop, governatore della Colonia della Baia del Massachusetts nel 1600. I genitori di Harper divorziarono quando lui aveva otto anni e lui, sua madre e i suoi cinque fratelli si trasferirono 30 volte durante l’infanzia, mentre cercavano di cavarsela con l’assistenza sociale. Giravano da un appartamento all’altro. Michael Harper  racconta: “Non riuscivo mai a mettere radici e mi sentivo sempre fuori posto“.  A 50 anni, Harper ha potuto confermare attraverso il Genealogy Roadshow, andato in onda sulla PBS dal 2013 al 2016, che la leggenda di famiglia era vera: discendeva da Winthrop, oltre che da altri personaggi famosi. Ha fatto una grande differenza”, ricorda Harper. Riuscire a rintracciare quel filo gli ha dato “una grande soddisfazione”.  Racconta “quando vivevo a Boston dopo aver appreso che discendevo da una persona famosa che era sbarcata lì dall’Inghilterra, scherzavo sul fatto che, quando attraversavo la città, mi sentivo il padrone del posto. Mi ha fatto sentire molto orgoglioso e questo pensiero non mi ha mai abbandonato“.

Essere imparentato con un famoso esploratore è stato il mio asso nella manica per acquisire importanza. Finché tutto è franato. Quando ero in quinta elementare e la mia classe iniziò a studiare la spedizione di Lewis e Clark, non vedevo l’ora di raccontare alla mia insegnante e ai miei compagni di classe la mia invidiabile discendenza. Tuttavia, dal cenno disinvolto della mia insegnante e dalla sua risposta poco attenta, capii che non mi credeva. Volevo solo alzarmi e correre fuori dall’aula.

Amy Morin, una psicoterapeuta clinica, che lavora da oltre 20 anni, mi  ha detto che chiunque abbia una  autostima che dipenda da qualcun altro (o dall’essere imparentato con qualcun altro!!), come me, si troverà su un “terreno traballante…. Potreste scoprire in seguito di non essere affatto parenti, il che potrebbe influire ancora di più sulla vostra autostima. Oppure, potreste sentirvi sgonfiati quando qualcun altro non è così impressionato come pensate dovrebbe essere”, dice Amy.  È importante sviluppare la propria autostima in base a chi si è come persona, non a chi erano le persone della propria stirpe. Nella famiglia di tutti ci sono persone che hanno lottato e persone che hanno ottenuto risultati”, osserva Morin.

Barbara Becker Holstein, psicologa che esercita privatamente nel New Jersey e le cui specializzazioni includono la psicologia positiva e l’autostima, ritiene che questo sia un problema di non riconoscere, e probabilmente di dover imparare a riconoscere, i propri talenti, capacità, limiti e potenzialità.  Più comprendiamo e sviluppiamo il nostro potenziale, più riusciamo a capire che le persone con cui possiamo o non possiamo essere in relazione sono interessanti, persino affascinanti. Ma… la cosa fondamentale per il nostro sviluppo – e la cosa più importante – è rendersi conto di essere unici e di avere molto da offrire nella vita“.  Ho capito che l’assenza dei miei genitori nelle nostre vite è stata probabilmente un fattore importante nello sviluppo (o nella mancanza di sviluppo) mio e dei miei fratelli. Vivere con quattro persone la cui vita era andata terribilmente male era così triste a volte che riuscivo a malapena a sopportarlo, e mi vergognavo e mi vergogno quando gli altri lo scoprivano, anche se sapevo intellettualmente di non essere un riflesso della mia famiglia.  Per fortuna ho trovato una storia diversa da raccontare sulla mia famiglia e sulla mia vita. Questa riscrittura della mia storia ha un parallelismo con il processo di “terapia narrativa“, che ha a che fare con la ricerca di modi più positivi di interpretare e raccontare le nostre esperienze di vita.  Oltre al suo ruolo universitario, Adler è anche responsabile accademico della Health Story Collaborative, un’organizzazione di Boston che organizza eventi e raccoglie risorse per aiutare le persone a trovare e raccontare le proprie storie di guarigioneSiamo nati senza parole, figuriamoci senza storie, spiega Adler, “e la narrazione è un’abilità che impariamo dagli altri. Quindi all’inizio viene sempre dall’esterno. Infatti, anche quando raccontiamo una storia a noi stessi, poi la mettiamo nel mondo e riceviamo un feedback. In un certo senso, quindi, le nostre storie sono sempre negoziati con altre persone”. Annie Brewster, medico del Massachusetts General Hospital di Boston, è fondatrice e direttrice esecutiva della Health Story Collaborative. Può essere difficile e doloroso dover “rivedere” le nostre storie e raccontarle, ma può anche essere utile per la salute. Attraverso la sfida, può anche portarci a vedere noi stessi in modo più completo”. In definitiva, conclude l’autrice, “è un cambiamento evolutivo e appropriato se riusciamo a far sì che la nostra storia interna venga raccontata in modo autentico, invece di cercare di inserirci in un’altra narrazione dall’esterno, ad esempio cercando un legame con una persona famosa”.  Ad esempio nonostante l’inizio difficile, il pastore Harper non solo guarda indietro a un’infanzia impoverita senza amarezza, ma elogia sua madre per aver “tenuto insieme la sua nidiata di sei persone“. Inoltre, scegliendo una carriera centrata sull’’aiuto agli altri, sarebbe probabilmente il primo a dire che riceve più di quanto dà.

Come lui – continua Patricia –  anch’io ho scelto un percorso positivoe ho raccontato una storia diversa – quando avrei potuto finire in modo molto diverso. Guardare i miei due fratelli sbagliare mi ha dato autodisciplina e due ulteriori esempi di come non volevo essere. Determinata a non avere problemi di dipendenza come loro, ho visto le loro vite come una lezione. Mi sono detta che avrei preso buone decisioni e non mi sarei fatto ostacolare. Iniziai a tracciare una nuova storia. Insegnavo a venticinque anni quando, durante un corso serale, una compagna di corso che lavorava alla AT&T mi disse che c’erano posti di lavoro per scrittori nel suo dipartimento. Ho fatto un colloquio, sono stata assunta e sono tornata a insegnare in classe quel settembre. Dopo qualche anno, ho iniziato ad alzarmi alle 5 del mattino per scrivere occasionalmente saggi e articoli per le riviste prima di andare al lavoro. Poi, un giorno, in quel periodo, ho visto una rubrica di economia sul New York Times e ho capito che c’era un’opportunità. Ho chiamato il giornale e ho chiesto di parlare con il direttore della rubrica. Mi ha fatto scrivere una rubrica campione che è stata pubblicata, ed è stato l’inizio di un lavoro da sogno. Per 20 anni ho lavorato come freelance per la sezione economica e alla fine mi sono guadagnata una rubrica tutta mia. Ho scritto un libro con uno specialista delle dipendenze, Sober Siblings:  How to Help Your Alcoholic Brother or Sister – and Not Lose Yourself (“Come aiutare un fratello o una sorella alcolista senza annullarsi 2008). Penso ancora a quell’episodio avvenuto in quinta elementare. Anni dopo, mio cugino fece un viaggio in macchina per fare ricerche sull’ascendenza della nostra famiglia. Venni a sapere di una riunione di discendenti di Lewis con i quali si supponeva fossimo imparentati e contattai gli organizzatori della riunione nella speranza di poter partecipare con mio cugino. Ho inviato le scoperte di mio cugino a un genealogista per dimostrare la nostra discendenza, con il risultato di scoprire – in modo definitivo – che non eravamo imparentati con la famiglia Lewis. Oggi posso ridere del fatto che la nostra leggenda di famiglia sia falsa. Dopo tutto, ho trovato una storia migliore da raccontare. E se oggi potessi dire qualcosa a quella bambina di quinta elementare, le direi: “Sei speciale così come sei. E non permettere a nessuno di farti sentire diversamente“.

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Una psicoterapia può esser riassunta con una metafora: aprire tutti i cassetti della nostra vita, scoprirne di nuovi e riordinarli in una storia di se stessi di cui andare fieri.

 

 

 

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